La grande sfida di politica estera di Biden è la Cina

A parte il rafforzamento dell’alleanza atlantica, il dossier di politica estera più scottante che l’amministrazione di Joe Biden dovrà affrontare sarà quello dei rapporti con la Cina. Negli ultimi lustri, Pechino non ha fatto mistero di voler raggiungere la primacy americana in diversi settori strategici. Commercio e tecnologia su tutti sono le tematiche di scontro maggiore tra Washington e Pechino. Come scrivono Ivan Krastev e Stephen Holmes (La rivolta antiliberale), «lo scontro imminente tra l’America e la Cina è destinato a cambiare il mondo, ma riguarderà il commercio, le risorse, le tecnologie, le aree di competenza e la capacità di plasmare un contesto globale in grado di ospitare gli ideali e gli interessi nazionali assai diversi dei due paesi». La Cina della prima parte della Guerra Fredda era chiusa, isolata. Si leccava le ferite all’indomani di una guerra civile senza precedenti ed era una spina nel fianco dell’Unione Sovietica.

Tuttavia, sotto l’amministrazione di Richard Nixon, con Mao Zedong nel febbraio 1972 ed in seguito con le aperture strategiche di Deng Xiaoping sono state gettate le premesse per una collaborazione fruttuosa tra Stati Uniti e Cina, nonché una sostanziale crescita di quest’ultima. Entrata nel WTO nel 2001 dietro l’insistenza di Bill Clinton, da allora la Cina ha goduto dello status di economia emergente. L’entrata della Cina nel WTO è stato forse il peccato originale che più di tutti è stato scontato dagli americani. Come ha scritto Maurizio Molinari (Assedio all’Occidente), la Cina ha sfruttato l’adesione al WTO «per penetrare e insediarsi sui mercati senza rispettare le regole della concorrenza e della proprietà intellettuale, trasformando così la globalizzazione dei mercati in un gigantesco trasferimento di ricchezza a proprio vantaggio». L’entrata nel WTO ha significato molto per Pechino. Da allora la Cina è un ibrido di capitalismo e comunismo, nazionalismo e confucianesimo.

In questo senso, Xi Jinping è l’espressione perfetta della “nuova Cina”. Quella che ha alzato la testa. E che, attraverso questo mix ideologico, intende porre fine al cosiddetto secolo delle umiliazioni. Credendo di essere arrivati alla “fine della Storia”, gli Stati Uniti hanno creduto che il loro momento unipolare e muscolare durasse in eterno. Da qui la sterile guerra in Iraq che ha spostato attenzione e risorse verso il Medioriente. Ad ogni modo, ancora troppo ad Ovest, dal momento che nel frattempo la Cina celebrava crescite a doppie cifre. Negli anni, Cina e Stati Uniti si sono legati sempre di più. Lo ha notato bene Fareed Zakaria (The Post-American World): le relazioni economiche tra Cina e Stati Uniti erano e sono di mutuale dipendenza. A differenza della guerra fredda USA-URSS, quella tra USA-Cina avviene in una realtà geopolitica mista e multipolare, di compenetrazione delle economie, interdipendenza commerciale, spartizione del mercato.

Pechino ha acquistato buona parte del debito americano, seppure il garante numero uno del debito USA sono gli americani. «I consumatori americani compravano merci prodotte in misura crescente in Cina; con la valuta incassata, i cinesi compravano titoli del Tesoro americano e con ciò fornivano risorse ai consumatori americani per comprare altre merci cinesi», ha scritto Danilo Taino (Scacco all’Europa). Difatti, come riferisce Federico Rampini (La seconda guerra fredda), «una grande nazione esportatrice ha bisogno di acquirenti per i propri prodotti; smettere di far credito a chi compra la sua merce, impoverire il proprio cliente, è l’ultima cosa che un buon commerciante farebbe». Oggi il Dragone persegue la strada che ha tracciato a partire dal piano “Made in China 2025”. «La Cina ha già di fatto superato gli USA», scrive Giada Messetti (Nella testa del Dragone).

«È il più grande produttore di acciaio, alluminio, navi, cellulari, computer, mobili, tessuti, capi di abbigliamento. È in grado di costruire in tempi brevissimi infrastrutture per le quali negli Stati Uniti occorrono lustri». Ancora Krastev e Holmes: «Lo scontro imminente tra Cina e Stati Uniti senza dubbio riconfigura l’ordine internazionale in maniera significativa e pericolosa, ma sarebbe fuorviante immaginare “una nuova guerra fredda economica” come una replica della guerra fredda originale, imbevuta di ideologia. Questo conflitto potrebbe rivelarsi emotivamente esplosivo, anziché freddo e razionale da entrambe le parti, ma non sarà ideologico». La questione pandemica in questo senso ha fatto scuola. Favorita dalla colpevole assenza di Washington nei suoi tradizionali teatri d’influenza, la Cina si è presentata come magnanima salvatrice dei vecchi paesi europei.

La ex “fabbrica del mondo” è stata in grado di dispiegare un’impressionante macchina di aiuti proprio come un tempo avrebbero fatto gli americani. Uno dei pochi meriti della politica (estera) di Donald Trump è stato quello di alzare la voce nei confronti della Cina. Quello di Trump è stato sì un grande show che ha portato a poco (l’equilibrio commerciale col Dragone non è stato ristabilito, molte aziende non sono tornate negli USA), ma ha popolarizzato l’issue. Biden adotterà una postura simile al suo predecessore nei confronti di Pechino. Se il decoupling tra le due economie è impossibile, la Cina deve però rispettare le regole del libero mercato. Basta dumping salariale, furto di tecnologie, manipolazioni monetarie.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su Corriere dell’Italianità)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

Una opinione su "La grande sfida di politica estera di Biden è la Cina"

  1. Bravissimo Amedeo, lucida e straordinaria analisi!! Quanto ho vissuto e…pagato, nel mio piccolo, l’inizio di questo stravolgimento epocale del mondo! Un caro saluto Bibi

    Maria Gabriella Rossi

    BB Consulting – Art & Real Estate Sagl

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