I passaggi di tempo di Fabrizio De André, anima salva

«Lascia che sia fiorito / Signore, il suo sentiero / quando a te la sua anima / e al mondo la sua pelle / dovrà riconsegnare / quando verrà al tuo cielo / là dove in pieno giorno / risplendono le stelle». Come il suo amico Luigi Tenco, morto suicida nel 1967, anche Fabrizio De André – scomparso vent’anni fa a cinquantotto anni – potrebbe essere destinatario di “Preghiera in gennaio”, prima opera musicale del primo album del cantautore genovese. Ricordare Fabrizio De André, menestrello di anime, cantore degli ultimi, voce dei disperati, è utile anche alla luce dei tempi che corrono. Quella società odierna che lui non ha visto e non avrebbe apprezzato, come ricordato più volte da Dori Ghezzi e Paolo Villaggio.

Nell’intolleranza dilagante, nel disprezzo verso gli ultimi e i diversi, nell’isolamento degli individui, le parole di De André possono indurre a più di una riflessione interiore. Quella che lui, anima anarchica – anima salva – faceva giungere ai sensi di chi lo ascoltava nelle sue esibizioni musicali. Di lui hanno scritto molti e tutto. Parafrasando Pablo Neruda, Fabrizio De André può confessare di aver vissuto. Con “Volume I” iniziava la produzione artistica del cantautore: una voce, una chitarra. Una scommessa contro la “bella società” che lo voleva avvocato. Il padre lo aveva spinto a seguire le orme del fratello Mauro De André, avvocato, tra gli altri, di Raul Gardini. Mai avrebbe accettato che un giovane borghese, nato nel 1940 da un’agiata famiglia genovese, imbracciasse la via della musica. Ma non era solo musica. Era poesia.

E già nel primo album in studio si trovano gli elementi essenziali dell’opera di Faber e le canzoni più note che avrebbero calcato i concerti successivi. A partire da “Via del Campo”, “Bocca di Rosa” e “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” (ballata-sberleffo) De André approcciò la sessualità e il sesso, la religione e la fede (“Si chiamava Gesù”), la vita e la morte (“La morte”, ispirata dai versi di Cesare Pavese, con musica di Georges Brassens, figura cruciale per De André e la sua generazione). Il primo album tematico, “Tutti morimmo a stento”, è disco soffocante e angosciante. Droga (“Cantico dei drogati”: «Ho licenziato Dio / gettato via un amore / per costruirmi il vuoto / nell’anima e nel cuore»), pedofilia (“Leggenda di Natale”), ancora morte (“La ballata degli impiccati”), guerra (“Girotondo”).

Il “teatro dell’assurdo” del secondo disco è travolgente e deprimente. Sarà “Volume III” a ristabilire quella leggera allegria (non allegria leggera) derisoria e canzonatoria. Il tutto allietato ritmicamente con fisarmonica e assoli di chitarra. Dalla tragedia di Marinella (“La canzone di Marinella”) ai paradossi della giustizia (“Il gorilla”), dall’eroismo militare (“La ballata dell’eroe”) a «S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo» di Cecco Angiolieri. Poi la purezza di “Nell’acqua della chiara fontana”, fino agli strazi d’amore de “La ballata del Michè” («stanotte Miché / s’è impiccato a un chiodo perché / non voleva restare vent’anni in prigione / lontano da te»).

Con “La buona novella”, l’ascoltatore entra nella misticità religiosa del mondo deandreiano. Il cantautore percorre i vangeli apocrifi e ne aggiunge uno tutto suo: il disco del 1970. Dall’annuncio dell’angelo della natività di Maria al ritorno di Giuseppe («E fosti tu Giuseppe / un reduce del passato / falegname per forza / padre per professione»), “Il sogno di Maria” e Maria nel tempio («Dicono fosse un angelo / a raccontarti le ore / a misurarti il tempo / fra cibo e Signore»). Un tenero ritratto della Madonna e della delicatezza femminile in contrasto con “Via della Croce” e la morte di Gesù Cristo. A Tito e Dimaco, De André dedica le parole sofferenti delle rispettive madri. A differenza loro, Maria vedrà suo Figlio risorgere al terzo giorno. L’album si conclude con una delle canzoni più apprezzate di De André: “Il testamento di Tito”, una raccolta aggiornata dei dieci comandamenti.

Una rivisitazione musicata da De André e popolarizzata dalla traduzione di Fernanda Pivano è quella attorno all’opera di Edgar Lee Masters. Il quale, in Antologia di Spoon River inventò un epitaffio per centinaia di personaggi immaginari. Loro che «dormono, dormono, sulla collina». Da “Non al denaro non all’amore né al cielo”, emergono i beffardi, sadici, tristi, gagliardi ritratti di “Un giudice”, “Un matto”, “Un chimico”, “Un blasfemo”, “Un malato di cuore”, “Un ottico”. Ed infine di un suonatore, Jones, «che offrì la faccia al vento / la gola al vino». Nel quinto album di De André i destini dei personaggi sfociano in un unico comune denominatore. Cioè la morte («Dove se n’è andato Elmer / che di febbre si lasciò morire / Dov’è Herman bruciato in miniera. / Dove sono Bert e Tom / il primo ucciso in una rissa / e l’altro che uscì già morto di galera»).

Il sesto album, “Storia di un impiegato”, è quello più politico di De André, che commenta il Sessantotto alla luce della vicenda immaginaria di un trentenne disperato. Questi vorrebbe unirsi ai manifestanti, ma che per motivi d’età rinuncia alla causa. Stanco della monotonia lavorativa e delle presunte angherie della borghesia, delle ipocrisie della bella società, decide di preparare un ordigno per mandare tutto in fumo. Dalla “Canzone del maggio”, alla “Bomba in testa”, al dialogo con giudice (“Sogno numero due”) e quello interiore con il padre (“Canzone del padre”). Fino a “Il Bombarolo”. La violenza partorita nella mente dell’impiegato – emancipato e rinato nelle ceneri di un sottoproletariato urlante – diventa la forza dell’arroganza. La bomba che ha preparato scoppia proprio come previsto in “Al ballo mascherato”.

Recluso nel carcere, separato dalla fidanzata colpita accidentalmente dal tritolo, l’impiegato si rende conto che lo Stato è più forte dei manifestanti e dei terroristi che vogliono sovvertirlo. L’impiegato in carcere è solo. I deliri di “Nella mia ora di libertà” – ora di libertà alla quale l’impiegato rinuncia per protesta nei confronti dell’autorità – prendono forma in coda all’album. «Certo bisogna farne di strada / da una ginnastica d’obbedienza / fino ad un gesto molto più umano / che ti dia il senso della violenza / però bisogna farne altrettanta / per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire / che non ci sono poteri buoni».

Gli album che seguono – “Canzoni” (1974), “Volume 8” (1975) e “Rimini” (1978) – riconducono al De André delle origini. Dopo tre album tematici, “Canzoni” si apre con “Via della povertà”, brano rivisitato di Bob Dylan assieme a Francesco De Gregori. “Fila la lana”, “La ballata dell’amore cieco” e la “Città vecchia” riprendono l’elemento medievale. Ancora una rivisitazione di Brassens (“Morire per delle idee”), fino alla “Canzone dell’amore perduto”. «Vorrei dirti ora le stesse cose / ma come fan presto, amore, ad appassire le rose / così per noi / l’amore che strappa i capelli è perduto ormai, / non resta che qualche svogliata carezza / e un po’ di tenerezza». Poi “La cattiva strada” di “Volume 8”, la malinconia e la fragilità di “Oceano” e “Canzone per l’estate”, la lussuria di “Nancy” (brano tradotto da una canzone di Leonard Cohen), fino ai pezzi autobiografici di “Giugno ’73” e “Amico fragile”.

Scritto durante una pesante sbronza di whisky, la composizione è complessa e sofferta. «E ancora ucciso dalla vostra cortesia / nell’ora in cui un mio sogno / ballerina di seconda fila, / agitava per chissà quale avvenire / il suo presente di seni enormi / e il suo cesareo fresco, / pensavo è bello che dove finiscono le mie dita / debba in qualche modo incominciare una chitarra». Con “Rimini” del 1978 si riconferma la poliedricità di De André in termini di tematiche. Dall’aborto di Teresa all’omosessualità di “Andrea”. Da “Volta la carta” (definito da Massimo Bubola «esempio di surrealismo popolare») a “Coda di lupo” (che tratta la cacciata di Luciano Lama dalla Sapienza). Fino all’infrangersi dei sogni di “Sally”, la bimba diventata donna e caduta nel dramma della droga e della prostituzione (brano con riferimenti a Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez).

Dal rapimento in Sardegna nel 1979, nasce poi l’album “L’indiano”, per via della copertina dell’artista americano Frederic Remington. Tematiche principe sono la Sardegna e i suoi abitanti, la natura e l’esperienza con l’Anonima Sequestri, raccontata in “Hotel Supramonte”. «Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole / perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole / ma dove, dov’è il tuo amore / ma dove è finito il tuo amore». “Quello che non ho”, invece, è ritmata dal blues, chitarra elettrica e armonica. Espressione degli esperimenti musicali degli anni Ottanta, “Crêuza de mä” è stata accolta positivamente da tutta la critica europea. Fabrizio De André è riuscito a cantare un intero album tutto in genovese: la canzone che porta il nome della raccolta è la storia dei marinai che tornano a terra dopo tante avventure, per poi tornare in mare.

Dopo sei anni di silenzio, nel 1990 uscì “Le nuvole” (album trilingue in italiano, genovese e napoletano) in cui De André tratta di temi della società del suo tempo. In particolare, “Ottocento” (la celebrazione del decadimento dell’ipocrisia borghese nella liricità di un matrimonio combinato) e “Don Raffaè” (la denuncia della sottomissione parziale dello Stato alla Mafia e della situazione delle malavitose carceri italiane). “La dominica delle salme” tocca tante tematiche. La fine del Comunismo, la caduta del Muro di Berlino, la Milano da bere, l’accenno profetico a Mani Pulite. «Le nuvole, per l’aristocratico Aristofane, erano quei cattivi consiglieri» commentò De André su Music. «Aristofane ce l’aveva con i sofisti che indicavano alle nuove generazioni un nuovo tipo di atteggiamento mentale […] innovativo e provocatorio nei confronti del governo conservatore dell’Atene di quei tempi».

L’ultimo album è stato scritto a quattro mani con Ivano Fossati. “Anime salve” è un concentrato di denunce sociali. “Prinçesa” narra la storia di una transessuale, diventata donna. “Khorakhané” è il tentativo di condensare il popolo Rom all’interno di una lenta melodia; lento come il camminare degli ultimi nella Storia. “Smisurata preghiera” è il testamento di Faber. Pensata «per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo marchio speciale di speciale disperazione / e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità di verità». Fabrizio De André lo splendore l’ha raccontato. La morte ha bussato alla sua porta l’11 gennaio 1999. Sembra un’eternità, ma chi vuole applicare i suoi insegnamenti capirà che vent’anni sono pochissimi. Sono «solo passaggi e passaggi / passaggi di tempo […] Cose svanite, facce. E poi il futuro».

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su L’Osservatore)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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